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Quando si lancia l’allarme sull’analfabetismo e sulla povertà culturale delle nuove generazioni, alcuni fanno notare come il lamento dei ‘vecchi’ sulla degenerazione dei giovani sia un topos che attraversa i millenni: dopodiché, al solito, la vita continua come prima e il mondo non finisce…

Questa volta, però, sembra di essere davanti a qualcosa di diverso: chi lavora a scuola non può non constatare come si stia verificando (alla faccia della retorica delle “competenze”) un crollo verticale delle capacità di comprensione dei testi scritti, l’impossibilità crescente di decifrare qualunque riferimento culturale del discorso, compresi modi di dire, espressioni proverbiali e metafore e, cosa ancor più preoccupante, un impoverimento dell'interiorità collegabile in modo molto preciso al declino della ‘civiltà della parola’, alla fine della possibilità di rispecchiamento nelle storie degli altri (quelle raccolte nell’immenso deposito della narrativa di tutti i tempi e quelle sintetizzate nelle immagini topiche della poesia), con le conseguenze di disagio silente - emotivo, affettivo ed 'esistenziale' - che ne derivano; un disagio non a caso sempre più incapace di esprimersi a parole e che a volte trova sfogo in ‘agiti’ dannosi per sé e per gli altri. 

Tra le cause di questi fenomeni, metterei al primo posto la spinta del "mercato" a sostituire contenuti duraturi e sostenuti da una consapevolezza culturale – quelli, per intenderci, appresi attraverso i libri - con altri estremamente volatili e (nonostante l'apparenza) ricevuti in modo sempre più passivo, specie attraverso l’uso di social che schiacciano ogni comunicazione su una sorta di meccanismo stimolo-risposta privo di spessore linguistico, di struttura sintattica e di ogni possibilità di riflessione. In tal senso, ha ragione chi dice che stiamo uscendo dalla civiltà del libro e della parola e stiamo entrando definitivamente in quella dell’immagine (lo si dice da moltissimo tempo, tanto che anche questo sembra ormai un luogo comune): anche la frase brevissima dei social è riconducibile all’immagine, sta in un colpo d’occhio, ha sempre meno risonanze e sempre meno a che fare con il pensiero.

Ciò che però a volte manca, di fronte ad ineccepibili analisi di questo tipo, è l’indicazione di possibili vie d’uscita: si ha l’impressione che considerare il declino culturale come un fenomeno storicamente ineluttabile (quando invece è il portato di precise strategie economiche e pubblicitarie di conquista dei “consumatori”, specie di quelli più giovani e indifesi) diminuisca le forze di reazione, che pure ci sono, rispetto a questi fenomeni (“Il profeta che ammonisce senza presentare alternative accettabili, contribuisce ai mali che enuncia”: la frase è di Margaret Mead, citata da Gianrico Carofiglio in Con i piedi nel fango); gli studenti stessi, a scuola, ci chiedono implicitamente di alimentare la loro curiosità e di dare risposta alla loro domanda di contenuti culturali e di senso, una domanda spesso nemmeno consapevole di se stessa.

Ecco che allora, proprio nel rapporto educativo, tra una cultura scritta spesso troppo lontana e ormai quasi inattingibile e una cultura visiva che riduce la comunicazione alla meccanica dello stimolo-risposta, che non dice mai nulla di nuovo, c’è una terza via, quella dell’oralità. Oggi la cultura non può passare, prima di una lunga ri-educazione, per un testo scritto affrontato dagli studenti in solitudine; deve essere prima di tutto riproposta attraverso una comunicazione orale che stimoli, nella sua immediatezza anche emotiva, in un vero corpo a corpo, la curiosità e la ricerca del senso delle cose, che sia capace di aprire prospettive nuove e modi diversi di guardare la realtà. Proprio attraverso l’oralità gli insegnanti, affascinanti (nel senso proposto da Galimberti) e, loro sì, traboccanti della cultura del libro e della parola, devono farsi mediatori di tale cultura, fino a portare gli studenti stessi, la cui naturale curiosità è fortunatamente insopprimibile, a chiedere di poterne scoprire insieme i segreti e i tesori…

I bambini, gli adolescenti, i giovanissimi hanno un bisogno disperato degli adulti, molto più di quanto non diano a vedere; e molto spesso il loro rifugiarsi nello smartphone è la presa d’atto rassegnata della mancanza di una reale alternativa. Dopo tutto, l’analfabetismo ha sempre a che fare con qualche tipo di abbandono a se stessi e con la solitudine.