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A volte, nel nostro lavoro di insegnanti, smarriamo il senso di quello che facciamo; nel caso della lettura di una poesia, ad esempio - presi da mille incombenze di ogni tipo - può capitarci di dimenticare il fatto che leggere un brano letterario insieme agli studenti significa rispondere a una sfida, trovare ciò che esso ha di fondamentale da dire, farlo parlare e ‘tradurlo’ in modo che esso possa portare qualcosa di nuovo nella nostra vita, in termini di rispecchiamento, di consapevolezza, di emozione.

Se questo non accade, noi perdiamo appunto il senso di ciò che facciamo e, quel che è peggio, trasmettiamo ai nostri studenti un penoso senso di inutilità che trasforma la letteratura – la cosa più viva che abbiamo – in un grigio dovere burocratico. A volte questo accade perché un certo brano non ci piace e lo facciamo leggere senza convinzione per presunte esigenze “di programma”; oppure perché forse noi stessi non lo abbiamo ben compreso in ciò che davvero ha da dire.

Confesso che, pur avendo un lungo passato da montalista, a me la poesia “Spesso il male di vivere ho

incontrato”, celebre lirica degli Ossi di seppia, ha sempre fatto poco effetto, con quelle immagini del “male

di vivere” e della “divina Indifferenza” che mi sembravano nient’altro che gelide astrazioni; soprattutto,

non capivo il senso delle tre immagini della seconda strofa (la statua, la nuvola, il falco), che mi lasciavano –

tanto per rimanere in tema – del tutto indifferente, finché…

Un giorno spiegavo questa poesia a un intelligentissimo studente, Giuseppe Valente (ne faccio il nome,

tanto ormai è un amico); la prima quartina della poesia, a dire il vero, non presenta particolari problemi

interpretativi:

 

Spesso il male di vivere ho incontrato:

era il rivo strozzato che gorgoglia,

era l' incartocciarsi della foglia

riarsa, era il cavallo stramazzato.

 

Chiaramente, il male di vivere e il senso di morte si manifestano qui in un climax ascendente, che va

dall’inorganico (il fiume che non riesce a scorrere), al vegetale (la foglia secca), all’animale (il cavallo

morto).

I problemi arrivano con la seconda quartina:

 

Bene non seppi, fuori del prodigio

 che schiude la divina Indifferenza:

era la statua nella sonnolenza

del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.

 

A parte le ‘cruces’ interpretative più semplici, che riguardano il piano grammaticale e sintattico (“Bene” è

avverbio o, com’è quasi ovvio, nome, “ciò che è bene”? È chiaro che è la “divina Indifferenza” a “schiudere”

il “prodigio” e non viceversa…ma è davvero così chiaro?), i commentatori si chiedono da decenni cosa sia la

“divina Indifferenza”: l’indifferenza di Dio? Un’indifferenza crudele che ha qualcosa di divino? E questa

‘indifferenza’ è da intendere in un’accezione positiva o negativa? Se la prima strofa mostra immagini del

“male di vivere”, la seconda dovrebbe essere quella del positivo, o no? E le tre immagini giustapposte (la

statua, la nuvola, il falco) in che rapporto sono tra loro? Perché sono accostate? Si tratta di un

accostamento casuale, magari volto a suggerire la contingenza e l’insensatezza di tutto ciò che esiste?

Ecco che, in questa foresta di dubbi, cade l’osservazione geniale di Giuseppe: “Certo, la statua ha i piedi

attaccati a terra, non si può muovere…”. “Vai avanti, e la nuvola?”. “La nuvola sì, si può muovere…”. “Beh,

non allo stesso modo del falco”. “No, la nuvola è portata dal vento, non è libera…”. “E il falco?”. “Il falco sì,

decide lui dove andare, va dove vuole lui…”. Ah, ecco cosa c’è nel cuore di questa seconda quartina,

improvvisamente lo capisco anch’io: un altro climax con al centro la libertà, anzi, la Libertà, in senso

metafisico, come continua ricreazione di nuove possibilità dell’essere (il cui equivalente fonosimbolico è

l’armoniosa allitterazione nuVOLA-fALcO-ALtO-LeVATO, anch’essa una prodigiosa trasformazione e

ricreazione nel crogiolo delle possibilità verbali). La successione statua-nuvola-falco è un’ascensione sulla

scala della libertà, l’equivalente per immagini di un progressivo scioglimento dalle catene di ciò che è

morto, per arrivare a ciò che è libero; ed ecco allora cos’è la “divina Indifferenza”: la forza vitale che ci porta

avanti, ci permette di ricominciare sempre daccapo, fa sì che ci lasciamo alle spalle il peso del passato, di

ciò che è morto dietro di noi. Indifferenza non significa che non ci importi di ciò che è stato e di ciò che

viene distrutto dal tempo (sintetizzato nei simboli della prima quartina), ma suggerisce la leggerezza ariosa

del nuovo, la creatività di una scelta sempre possibile, di un passato che non uccide, non imprigiona e non

incatena il futuro…

Questa poesia, nella successione delle sue immagini (anche senza che si conosca il milieu culturale in cui si

muove Montale, il contingentismo filosofico, Boutroux, Bergson…), riesce a trasmettere il senso di una

liberazione, a farci sentire una sensazione di alleggerimento del “male di vivere” attraverso la forza

creatrice della libertà. Questo ha da dire Montale ad un tempo come il nostro, segnato da mille

condizionamenti, tanto più potenti quanto più occulti. Adesso sì che mi piace spiegare questa poesia.