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“La scuola è un pilastro fondamentale che bisogna riparare” titolava un bellissimo articolo di Simona Bonsignori su Il Manifesto, qualche giorno fa. Nello stesso articolo si raccontava di come, durante la pandemia, bambine/i e ragazze/i fossero stati i grandi assenti dal discorso pubblico e ci si preoccupava del fatto che se fosse passata l’idea che la scuola era prescindibile allora sarebbe stata smantellata.

Puntuale come un orologio svizzero ci ha pensato subito l’Anp (Associazione Nazionale Presidi), in un comunicato, a dire la sua su come dovrebbe ripartire la scuola a settembre e non soddisfatta di quanto essa si sia già dovuta piegare alle esigenze del mercato ha fatto sapere che la media education dovrà diventare “addirittura” la “sfida democratica”.

Ma non finisce qua perché, nel comunicato, si spiega anche che “i docenti dovranno volgere decisamente la loro attività alla promozione dell’apprendimento autentico, attraverso un approccio di school improvement, ossia attraverso comportamenti di agevolazione del processo di formazione in uno scenario orientato alla cultura della competenza”, scenario questo in cui si compie la metamorfosi degli insegnanti in agevolatori, una cosa che soltanto a leggerla mette i brividi, perché secondo Anp, "la scuola è un erogatore di servizio che produce apprendimento"; come quando vai al distributore di benzina a fare il pieno, insomma.

Naturalmente i presidi-manager chiedono di essere supportati da un middle management e affermano di aver bisogno dell’aggiornamento della governance delle scuole, cioè delle competenze degli organi collegiali, che rappresentano ormai un ostacolo alle "prerogative dirigenziali" (sigh!).

Un elenco infinito di anglicismi che fanno tanto "amministratore delegato" ma suonano come una dichiarazione di guerra per noi docenti che da sempre ci battiamo per un’idea di scuola totalmente diversa.

Del resto se importasse veramente a qualcuno del futuro della scuola, ora che il virus sembra essersi indebolito e che in Italia si è riaperto quasi tutto, dai ristoranti alle spiagge al campionato di calcio, si penserebbe seriamente a rilanciarla; invece si sta pensando di continuare a tenere a casa bambini e ragazzi, rischiando di lasciare ai margini del percorso formativo circa 1,5 milioni di studenti e studentesse.

Questo non per un’ottusa miopia ma per una ragione molto più profonda.

Ce l’ha spiegata Stefano Merler, ricercatore della Fondazione Bruno Kessler, l’ente che il governo ha incaricato di studiare gli scenari per valutare la ripresa delle attività dopo il lockdown che ha affermato che ai componenti della task force è stato chiesto esplicitamente di concentrarsi sul mondo economico perché la priorità era quella; per quanto riguarda la scuola, è stata considerata solo l’ipotesi di aprirla o tenerla chiusa del tutto.

Inoltre, come il peggior sordo che non vuole sentire, tutto ciò che il Miur è riuscito a partorire per la ripresa a settembre è finora l’idea di banchi a distanza di un metro, l’obbligo di mascherina per i bambini dai 6 anni in su, ingressi scaglionati e turni e la geniale idea di far partecipare metà classe in presenza e lasciare l’altra metà a seguire in collegamento video da casa.

Ma è così facile calpestare il diritto allo studio e alla socialità di dieci milioni di studenti italiani, immolandoli alle esigenze dell’economia e del mercato? Così difficile, inoltre, comprendere che la cosiddetta Didattica a Distanza ovvero di Emergenza è servita a tamponare la stessa emergenza ma non può e non deve diventare una soluzione strutturale per tutta una serie di motivazioni, che vanno dal rischio di dipendenza dal computer, internet e telefonino per bambini e ragazzi, con conseguenti danni alla vista e alla loro salute in generale, al peso scaricato quasi esclusivamente sulle donne, al fatto che si è acriticamente consentito ai colossi dell’high-tech di entrare liberamente nelle nostre case, passando per l’ampliamento delle disuguaglianze sociali fino ad arrivare all’esclusione quasi completa dal panorama educativo di bambini disabili o con bisogni educativi speciali?

Se lo sono chiesto tutti quegli insegnanti, precari, studenti, personale Ata e comitati di genitori che sabato 23 maggio in 19 città italiane sono scesi in piazza a rivendicare quella Priorità che attualmente è negata alla scuola.

Se lo stanno chiedendo tutti quelli che sono al lavoro, da tempi non sospetti, su piattaforme partecipate che propongono un’idea di scuola completamente differente (Movimento di Cooperazione Educativa, Tutta un’altra scuola, La città educante: Manifesto dell’Educazione Diffusa; Teachers for Future Italia, Gli spazi della scuola: Scuole per il Futuro, solo per citarne alcune).

Eppure, ripeto, ora che finalmente si potrebbero prendere un po’ le distanze dalla paura, lo Stato italiano avrebbe l’obbligo morale di iniziare a ragionare seriamente su bambini e ragazzi e questo significherebbe, innanzitutto, trovare finalmente le risorse economiche che la scuola merita, significherebbe fare massicci investimenti su quel grande capitale umano che sono bambini e ragazzi.

Significherebbe mettere mano agli edifici scolastici fatiscenti, all’ampliamento degli organici, allo sdoppiamento delle classi pollaio.

Significherebbe prendere in considerazione nuovi spazi per fare scuola, ipotizzare di farla svolgere anche all’aperto, o di aprirla al territorio; significherebbe rendere le scuole SOSTENIBILI anche dal punto di vista ambientale.

Perché che si trovino miliardi di euro per finanziare l’industria delle armi o per salvare Alitalia e la Fiat, ma non la scuola pubblica italiana e aggiungo le generazioni future, è veramente inaccettabile e indegno di un paese civile.

Monica Capo, Teachers For Future Italia