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I

I giovanissimi 

Per chiunque voglia guardare in faccia la realtà, è palese che da almeno un decennio – e in modo sempre più rapido negli ultimi anni – si sia realizzato un fortissimo distacco tra una parte maggioritaria del mondo giovanile e l’abitudine alla lettura dei libri, intesi nel loro valore di strumento di scoperta e di conoscenza di sé e del mondo. Le motivazioni del declino della lettura sembrano chiare a tutti: internet, gli smartphone, i giochi e i social hanno soppiantato il libro e, permettendo una connessione e una comunicazione velocissima – sia pure molto superficiale –, hanno fatto diventare quasi improponibile il tempo lungo della lettura e della riflessione e reso obsoleto il loro strumento d’elezione. 

Tale diagnosi, a mio avviso, andrebbe ulteriormente dettagliata; a rendere ‘concorrenziale’ e vincente lo smartphone rispetto al libro non è infatti solo la velocità del suo utilizzo, ma anche e soprattutto la sua immediatezza: un libro è un mondo, per entrare nel quale occorre uno sforzo iniziale (capire di cosa si parla; nel caso della narrativa mettere a fuoco la vicenda, i personaggi ecc.) che sempre meno giovanissimi sono disposti a compiere; lo smartphone permette invece un godimento immediato, senza fatica iniziale (Freud parlerebbe di incapacità di “differire il piacere”, che impedisce ogni sublimazione dell’oggetto e porta inevitabilmente alla noia, come accade con tutto ciò che non è frutto di conquista personale: sarà anche qui il segreto della depressione che attanaglia tantissimi giovani?). 

Lo smartphone dunque è uno strumento vincente semplicemente perché è più veloce e perché il suo uso è più immediato di quello del libro? Questa risposta, a dire la verità, non è del tutto soddisfacente: sembra coprire solo una parte del problema e non spiega in particolare il fascino ipnotico che lo smarphone esercita su chi lo utilizza, fino a diventare il centro della vita e l’unica modalità di contatto col mondo per moltissime persone, giovanissime e non. In fondo, non può essere soltanto la facilità d’uso di un mezzo a farne o meno il successo: tutti vediamo come i giovanissimi si sottopongano qualche volta anche ai sacrifici più grandi, se ritengono che ne valga la pena, e riescano a fare sforzi sorprendenti, se opportunamente motivati. Evidentemente lo smarphone dà loro qualcosa – almeno illusoriamente - che il libro non dà. Ma cosa?

Lo psicoanalista Luigi Carbone, nel corso di una conversazione sull’argomento, formula un’ipotesi estremamente interessante: quello che i ragazzi non riescono più a sopportare del libro è la SOLITUDINE che la sua lettura richiede. La condizione indispensabile per leggere, infatti, è per definizione quella di essere soli con se stessi; e oggi la solitudine è qualcosa che, lungi dall’essere sentita come feconda (nella sua qualità di condizione per pensare), terrorizza profondamente. Ai giovanissimi non bastano più, evidentemente, le voci che il libro accende dentro; anzi, probabilmente ne sono molto spaventati. Viceversa lo smartphone, i giochi e i social danno la sensazione rassicurante di una connessione perpetua con le altre persone, fanno da ‘otturatore’ solido e concreto rispetto ai pensieri angosciosi e servono a evitare una sensazione penosa di abbandono. Il prezzo di questa continua rassicurazione però è molto alto: come ogni dipendenza, richiede il sacrificio di una quota consistente di libertà, soprattutto della libertà di sentire, di immaginare, di riflettere; e il pensiero – paragonato alla rassicurazione dell’ ‘agito’ delle dita che scorrono sullo schermo – appare addirittura minaccioso, come appare minaccioso il libro, che ne è il principale strumento.

Come se ne esce? Una proposta potrebbe essere quella di ‘spogliare’ l’atto del leggere da una parte della sua solitudine: se il luogo in cui si legge fosse anche un luogo d’incontro, su modello della biblioteca, riadattata alle esigenze degli adolescenti di oggi, l’atto della lettura diventerebbe insieme individuale e collettivo, di gruppo; e la vicinanza fisica di altri lettori toglierebbe ai giovanissimi un po’ dell’enorme paura di essere soli che si portano addosso. Se si riuscisse a ‘socializzare’ l’atto della lettura e a rendere la scuola, ad esempio, un luogo in cui si legge tutti insieme, forse le cose potrebbero cominciare a cambiare.

 

II

Gli insegnanti

A volte amici insegnanti mi chiedono dove io trovi il tempo per leggere. Devo dire che la domanda mi stupisce sempre: che un insegnante legga dei libri dovrebbe essere una cosa talmente ovvia da non suscitare nessuna curiosità. L'insegnante non è il tramite di contenuti culturali (e, direi, umani) significativi? E se lui stesso, in prima persona, non occupa una parte del suo tempo a confrontarsi con tali contenuti e a rielaborarli, come può trasmetterli ai suoi studenti, in modo da farglieli sentire vivi e appassionanti?

Ho il sospetto che concentrare tutta l'attenzione sui 'metodi' dell'insegnamento - si veda l'inutile retorica della didattica per 'competenze' - non sia altro che un tentativo di supplire a un grande vuoto che si sta creando in questo senso; tutti infatti vediamo come agli insegnanti vengano sempre più imposti compiti burocratici che esulano completamente dal loro ruolo di educatori-intellettuali e che tolgono loro il tempo e, direi, anche gli stimoli e la voglia, di coltivare una passione culturale indispensabile ad un senso vivo e vitale della conoscenza. Su questo punto, la nostra rassegnazione può essere davvero micidiale.