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Accettai il mio primo incarico come insegnante a Varese e mio padre Carmelo con suo compare  Nino Barresi fu il primo a venirmi a trovare con la fiammante 131 Mirafiori, appena comprata alla Fiat Gemelli. Conosceva bene quei posti, mio padre. C’era arrivato nell’aprile del 1940, per il servizio militare, a 18 anni appena compiuti. Volevano ritrovare quei luoghi e quelle persone che mio padre aveva conosciuto durante i suoi cinque anni di permanenza ed erano rimasti indelebili nella sua mente e nei suoi racconti. 

Si trovava già sotto le armi quando, il 10 giugno 1940, l’Italia dichiarò guerra alla Francia e all’Inghilterra. Da una radio, in caserma, sentì il discorso del Duce che annunciava agli Italiani l’inizio, anche per loro, della seconda guerra mondiale. La tristezza invase il cuore, gli occhi di mio padre e dei suoi commilitoni ma, essendo giovani, l’entusiasmo di combattere per la Patria ebbe il sopravvento. La sua prima battaglia fu quella in cui le truppe Italiane attaccarono, senza successo, i Francesi sulle Alpi Occidentali. Con i mitra in mano e le maschere anti-gas pronte per essere indossate, avanzavano, annaspavano nel fango; colpiti dai nemici, sanguinanti si trascinavano lasciando dietro compagni morti e feriti che la Croce Rossa raccoglieva e portava nell’infermeria da campo. Là si consumavano e si spegnevano come candele dopo aver dato luce. Anche mio padre,  ferito gravemente ad una caviglia, dall’infermeria da campo fu mandato in ospedale. Dopo la guarigione parziale, prestò servizio in fureria e fu poi destinato all’ufficio censura, essendo in possesso della licenza elementare: lì si controllavano le lettere che i militari spedivano ai loro cari e si correggevano se davano brutte notizie sul loro stato; gli capitava pure di aiutare i suoi compagni che non sapevano scrivere. Forse quella profonda ferita, che gli impediva di camminare bene, gli salvò la vita. Alternava il suo lavoro in ufficio con periodiche perlustrazioni sui treni sulle linee Varese-Milano-Como. 

 

Dopo 15 ore di gradevole, motivante viaggio, mio padre e suo compare Nino arrivarono nella mia casa di Ponte Tresa. Non erano stanchi e l’indomani, appena alzati, pieni di entusiasmo giovanile, si misero in macchina per andare alla ricerca di quei posti e di quelle persone che mio padre non vedeva da 40 anni. Cercavano Lissago… Lissone… la vecchia stazione… la caserma. La città di Varese, intanto, si era estesa  inglobando tutte le periferie e quasi nessuno ricordava più i nomi delle contrade. Ebbero la geniale idea di chiedere in un ufficio postale e, grazie ad un impiegato anziano, ebbero informazioni precise. Quel signore fu così gentile da accompagnarli personalmente nei posti descritti da mio padre e trovarono persone e luoghi di 40 anni prima. 

Fu una festa per loro ritrovare la Mariangela, prima fidanzata di mio padre, i rimanenti della sua famiglia, il compagno d’armi Tommaso Volpe ed i suoi amici, con i quali uscivano e andavano in chiesa, con le rispettive fidanzate, la domenica se liberi dal servizio. Organizzarono pranzi e cene per una settimana, ricambiandosi gli  inviti: compare Nino era allibito, esterrefatto, incredulo per tale accoglienza ed  emozionalità.  Una sera mi spuntarono a casa in 20 e non potei far altro che prenotare nella pizzeria di Rita e Franco, sotto i portici di casa mia. Si raccontavano episodi del passato, fatti piacevoli ed eventi tristi. Non smettevano mai con i “ti ricordi quando”… 

“Quando ci mandarono a Lissone a controllare gli operai in sciopero dell'Incisa e dell'Alecta e gli operai volevano fraternizzare con noi, chiedendo la liberazione di altri scioperanti e detenuti politici rinchiusi a San Vittore?”… “e quando” ...”E quando nelle case e nelle scuole mancava la carta per scrivere e tu, Carmelo, fornivi maestre ed alunni, prendendola nel tuo ufficio e nel magazzino militare?”  …  “ah, sì! Ricordo pure -incalzava mio padre- quando, nel settembre del ‘43, si cominciarono a formare i primi gruppi lombardi di Partigiani, organizzati e guidati da Luigi Longo e che noi, in servizio sui treni, li incontravamo nel bar della stazione di Lissone, quando si riunivano…”. Si soffermarono, in particolare, sulla tragica fine di Mussolini. Dopo essere stato fucilato con la sua Claretta Petacci, quel 28 Aprile 1945, i loro cadaveri furono trasportati a Milano insieme ad altri 16 cadaveri di fascisti. I corpi vennero esposti in Piazzale Loreto e mio padre, nominato, per l’occasione, capo servizio d’ordine, vide e visse tutto. La gente, saputa la notizia, si riversò in quella piazza: spingevano riuscendo a superare il servizio d’ordine ed inferociti sputavano sui cadaveri, davano calci ed insultavano quei corpi inermi. Per evitare il peggio, i cadaveri furono appesi, a testa in giù, alla copertura di un distributore di benzina vicino a corso Buenos Aires. Poi, in serata, furono portati all’obitorio. Non amava ricordare questa esperienza mio padre. Ne era scosso, nonostante fossero trascorsi lunghi anni. Evitava di raccontare quanto aveva visto, quasi se ne vergognava: lo si leggeva nei suoi occhi quando lo convincevamo a raccontare quella scioccante, terribile esperienza. 

Con Tommaso Volpe ricordarono quando l’8 settembre,   in caserma,  dalla solita radio, l’annuncio dell’armistizio, dato da Badoglio, subito dopo lo sbarco degli alleati in Calabria e Salerno, provocò lo sbandamento di quasi tutti i militari italiani nella penisola e all’estero, a seguito della prevedibile reazione tedesca. Erano cambiate le alleanze: i Tedeschi, prima alleati, erano divenuti nemici e cominciarono i rastrellamenti. I nostri soldati, raccontavano, privi di direttive, cercarono di non finire nelle mani degli ex alleati e si rifugiavano presso le masserie del Varesotto e del Comasco, dove potevano; molti si univano ai locali partigiani, altri scappavano per ritornare alle loro case. I Tedeschi affiggevano manifesti minacciosi: punivano con la pena di morte ogni atto di sabotaggio, vietavano assemblamenti ed imponevano il coprifuoco dalle 21:00 alle 5:00 del mattino. In uno di questi rastrellamenti, mio padre fu fatto prigioniero e, malgrado fosse sotto la minaccia delle armi, non rivelò mai ai soldati tedeschi che lo interrogavano il rifugio dei suoi compagni: sarebbero stati catturati e deportati in Germania, se scovati. Un tedesco, pur conoscendolo, gli sparò un colpo di pistola a bruciapelo nell’altra caviglia, per pura punizione e vendetta. Mio padre non lo maledì mai per quel che gli aveva fatto: in fondo gli risparmiò la vita, forse anche perché vecchio conoscente. 

La tristezza li prendeva tutti quando raccontavano di persone non più presenti tra di loro, morte per i normali destini di vita che colpiscono tutti noi. Erano visibilmente felici, pieni di entusiasmo, ringiovaniti mio padre e suo compare Nino Barresi, diventati compagni di tanti altri viaggi: quelle persone, quei luoghi rivisti dopo 40 anni, la gioia per l’accoglienza ricevuta lasciarono in loro ricordi emozionanti che raccontarono, al loro ritorno, a familiari, parenti ed amici. L’entusiastica accoglienza ricevuta li aveva rapiti talmente tanto che decisero di prolungare la loro vacanza.  Continuarono a ricercare altri luoghi e persone tra Milano, Como, Varese, Campione d’Italia,  man mano che mio padre ricordava. Quel viaggio, quella indimenticabile esperienza li ha cambiati, li ha rigenerati: si sentivano più vivi, più attivi. Quel rivedere il passato è stato, per loro, come uno spruzzo d’acqua che rigenera l’argilla secca dell’artista e la prepara per essere di nuovo plasmata e meglio definita.