Tra le varie esperienze, mancava proprio quella, l’insegnamento in una scuola carceraria. Una opportunità che mi capita e che colgo al volo perchè ho bisogno di viverla nella sua diversità e alla fine l’esperienza finisce per formare me.


Quella mattina iniziò con la presentazione presso i cancelli del penitenziario, situato in aperta campagna. Una mattina piena di sole ma raggelata dalla sagoma grigia del blocco del penitenziario.

Il piantone al cancello già mi aspetta, è stato avvisato. Devo essere schedato negli uffici ma già mi hanno raccomandato di seguire un codice di condotta ben preciso. Immaginate un informatico che oltrepassa i cancelli di una scuola senza cellulare, senza la sua borsa porta pc, senza pendrive, senza nulla di elettronico. Già comincio a pensare a come potrò svolgere dignitosamente il mio lavoro, “denudato” dei miei stessi attrezzi da lavoro.

Finita l’identificazione ho il mio badge con la mia foto. Posso entrare nel blocco penitenziario vero e proprio. Mi presento all’ingresso, già sanno chi sono. Mi aprono un cancello e mi indicano un lungo corridoio da percorrere. 2,3,4,6 cancelli che si aprono davanti a me mentre vengo seguito attraverso le telecamere. Un percorso di qualche minuto che dentro me dura ore. Incontro guardie carcerarie, dipendenti, funzionari e nel frattempo i cancelli si aprono davanti a me e si chiudono alle mie spalle. Un corridoio a tratti gelido, lungo, largo oltre 4 metri che mi ricorda i tanti film in cui tutto viene romanzato. Ma quello è un carcere vero. Chissà cosa mi si prospetterà una volta arrivato nella scuola, chissà come sarà composta, chi saranno gli studenti, come mi scruteranno.

Nel frattempo per me tutto diventa come una discesa negli “inferi”, una sorta di passaggio verso un mondo dove la libertà è limitata, un luogo che non ho mai visto direttamente e che in me suscita emozioni strane.

Sento dentro di me qualcosa come se mi mancasse l’aria, infilato sempre tra i corridoi spesso privi di contatto con l’esterno se non per via di qualche finestra ben corazzata.

Arrivo finalmente alla scuola carceraria, quella dove avrò due classi di studenti particolari. Mi accolgono i colleghi che conosco, mi sento quasi come uscito da un incubo. Il carcere assume adesso una dimensione più umana e meno gelida, non sono solo.

Il collega più esperto mi spiega qualcosa, mi presenta la guardia responsabile della scuola, mi presenta i pochi studenti e mi passa la parola.

Occhi che mi fissano, persone, ragazzi socievoli, anche sorridenti. Per un attimo mi pervade un dubbio atroce: chi ho di fronte a me? Quali atti avranno compiuto questi miei studenti per essere li? Ho quasi una curiosità morbosa ma dura un attimo, qualche decimo di secondo, poi ritorno a vederli come quei corsisti adulti che avevo nei corsi pomeridiani di alfabetizzazione informatica. E così inizio. Strano ma vero, la mia aula è dotata di una Digital Board, bene, ho tutto quello che mi serve e molto di più.

La lezione ha inizio sotto gli sguardi attenti, sotto alcuni sguardi distratti ma sempre rispettosi dell’autorità del docente, colui che ha qualcosa da raccontare, qualcosa da trasmettere e da comunicare.

Comincio a chiedermi cosa posso fare per coinvolgerli, dovrei conoscerli meglio ma non è possibile, dovrei anche evitare a far riferimenti al loro passato scolastico, oppure posso chiedere?

E così in mezzo a tanti interrogativi la lezione procede. Una lezione di introduzione all’informatica, di come mai ci è sempre di aiuto e soprattutto di come non possiamo farne a meno. Ma è un percorso in equilibrio instabile in bilico tra il lasciarsi andare in qualche aneddoto storico e il rimanere ancorato alla realtà cercando di catturare l’attenzione e un po’ di motivazione nei miei allievi.

La lezione finisce, la guardia decreta l’inizio della pausa ricreativa, le mie due ore le ho concluse, devo tornare a casa.

Il percorso di uscita credo che lo ricorderò per sempre ed è per me un rituale che ripasso ogni volta che mi accade di uscire dalle mie lezioni alla scuola carceraria. Mi si aprono i vari cancelli e man mano la sensazione è come quella di chi riemerge dagli abissi del mare dopo una immersione in profondità. Comincia a vedere la luce sulla superficie del mare così come io intravvedo quella che entra dall’ultimo cancello, anche se tutto il percorso non è effettivamente buio.

L’uscita finale in me provoca un senso di libertà, quel senso di gratitudine per essere ancora libero di pensare, libero di agire, libero di andare dove voglio, libero di connettermi al resto del mondo. E’ questo il rito a cui penso ogni volta che c’è qualcosa che mi fa stare male: c’è un posto, uno dei tanti posti, dove sicuramente si sta peggio, dove l’unico vero momento di socialità è quello vissuto nelle 4 pareti di una aula della scuola carceraria a discutere con i “civili” per distinguerli dalle “guardie” e per sentirsi vicini a qualcuno di “simile”.

Ero entrato nella scuola carceraria per formare ma ne sono uscito formato e trasformato.

  •  
  •  
  •  
  •  
  •  
  •  
  •  

Professione Insegnante ha bisogno di te

Vuoi darci una mano? Puoi aiutarci in due modi:

Sottoscrivendo un tesseramento con Professione Insegnante cliccando sull’immagine sottostante. potrai scoprire i nostri servizi e le nostre consulenze a tutela della professione insegnante.

Oppure donandoci un caffè per mantenere il nostro sito e i servizi agli insegnanti sempre aggiornati.
Puoi donare con qualsiasi carta di credito, anche 2 euro ci potranno aiutare.


Abbiamo bisogno di te


Non sei ancora socio?
scopri cosa puoi fare in PI

This will close in 20 seconds