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Leggendo Mastro-don Gesualdo di Verga, mi è venuto un pensiero sicuramente già formulato altre volte nella storia della critica, ma forse non in questa forma - e poi, un’idea che nasce spontaneamente in noi, dal contatto diretto con un’opera, è sempre diversa da una formula che ci arriva dall’esterno.

Insomma, pensavo: in Mastro-don Gesualdo - ancor più che ne I Malavoglia, dove l’umanità dei protagonisti fa da controcanto alla disumanità del paese - tutti i personaggi recitano (con rarissime eccezioni, costituite di solito dalle vittime); tutti fingono, tutti sostengono una parte: ad esempio nelle contrattazioni economiche - che occupano uno spazio enorme in questo universo cupo dove conta soltanto l’interesse materiale, e dove anche un matrimonio non è nient’altro che un affare – tutti fingono di disperarsi, di aver ceduto alle richieste della controparte, di essersi rovinati, di averci rimesso, per poi andarsene soddisfatti ritenendo di averla spuntata sull’altro. La mancanza di autenticità segna tutti i rapporti umani e l’intero sistema della socialità, ed investe in pieno anche la dimensione assolutamente ipocrita di una religione che è soltanto forma, pura recita anch’essa. 

Per dirla in un altro modo, tutti i personaggi in Verga portano delle maschere; e mentre leggo, penso: ah, ecco da dove è partito Pirandello (mi riferisco a questo aspetto in particolare, perché sui debiti di Pirandello nei confronti del verismo e di Verga esiste una sterminata bibliografia), l’autore dei Sei personaggi non ha inventato niente; già in Verga la vita sociale appare come una grande recita, dove non c’è niente di autentico. E qual è allora la differenza, sempre per quanto riguarda la tematica della finzione, tra Verga e Pirandello? Beh, dietro le maschere di Verga c’è una realtà oggettiva, anche se essa viene tenuta nascosta: la persona ha una sua consistenza – sia pure spregevole – fatta di meschineria, di crudeltà, di grettezza, di egoismo, di istinti primordiali. Dietro le maschere di Pirandello invece non c’è niente, o meglio c’è un caos non interpretabile e non riconducibile a nessun ordine di senso.

Qui, in un’immagine, vedo concretizzarsi tutta la differenza che c’è tra Ottocento e Novecento, tra la fede nell’esistenza di una realtà oggettiva – sia pure spaventosa e brutale – e il soggettivismo nel quale ogni realtà, compresa l’identità personale, si vaporizza e svanisce, scivola via tra le dita. Ecco, domani a scuola potrei spiegarla così…

E qui mi viene da fare un’ulteriore riflessione: leggere per me è una passione, i libri alimentano in me una curiosità inesauribile – e più leggo più si fa vasto e sconfinato l’orizzonte delle cose che non conosco e che, in un’infinita scoperta, meriterebbero di essere conosciute; ma quante volte non ho tempo di scoprire proprio niente perché anziché leggere, approfondire, studiare, sono impegnato in relazioni, PDP, progetti PTOF, consigli di classe, collegi docenti, riunioni di dipartimento, distribuzione e ritiro di moduli, ricevimenti pomeridiani,  telefonate, fonogrammi, organizzazione di uscite, lavori di commissione, corsi sulla sicurezza e ancora progetti progetti progetti? Il proliferare di impegni burocratici inutili o, nel migliore dei casi, attinenti al lavoro della segreteria, non sembra avere altro scopo se non quello di ottundere le nostre capacità e la nostra passione di intellettuali e di pedagoghi, fino all’obiettivo finale (per qualcuno, evidentemente) di farci smettere del tutto di insegnare; non a caso molti colleghi dichiarano di non avere più tempo di leggere libri, divenendo in ciò uguali – in una paradossale rincorsa – ai tanti studenti che, per loro stessa ammissione, non hanno mai letto un libro in vita loro; perché, pasolinianamente, non basta aver ‘maneggiato’ contenuti culturali se si smette di farlo, non basta il ‘pezzo di carta’ per continuare ad avere qualcosa da insegnare (e quando si dice che esami di ammissione per l’insegnamento devono avere al centro i metodi, perché i contenuti si sono già studiati all’università, a me sinceramente viene un brivido lungo la schiena).  

Qui allora occorrerebbe cominciare a chiarirsi seriamente le idee su quale sia la SOSTANZA del nostro lavoro; e bisognerebbe partire dal chiedersi: un insegnante che non fa scoperte culturali PERSONALI, a cui non viene lasciato il tempo per farle, come fa a trasmettere interessi, passione, entusiasmo ai propri studenti? Io credo che le classi si interessino immediatamente ai contenuti culturali, se questi sono stati rielaborati in prima persona da chi li propone; non dobbiamo invece stupirci se gli studenti preferiscono rimanere attaccati allo schermo del loro smartphone quando si trovano di fronte adulti stanchi, spenti, svogliati, burocratizzati, che fanno lezione ‘tanto per’ e non perché credono nel potere della parola e della conoscenza.