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Mi piacerebbe molto che i chiacchieroni del didattichese provassero ad isolare le ‘competenze’ necessarie, che so, ad interpretare una poesia come “Corrispondenze” (o “Il cigno”) di Charles Baudelaire. Io dico che non ci riuscirebbero: molti di loro non hanno mai messo piede in una classe, si affidano a formulette astratte e imparaticce, non hanno idea di cosa siano ‘la discrezione’ di guicciardiniana memoria o l’ ‘esprit de finesse’ pascaliano; insomma, quella lunga stratificazione di conoscenze, di elaborazioni e di riflessioni indispensabile per compiere un autentico lavoro culturale ed ermeneutico, per interrogare a fondo le parole, la realtà e se stessi. 

Vediamo cosa succede concretamente quando si prova a proporre la poesia di Baudelaire a una classe quinta di un istituto tecnico. 

Dunque, leggiamo…

“La Natura è un tempio… Alt, che vuol dire che la natura è un tempio?”.

“Vuol dire… è un simbolo”.

“Cioè?”.

“Un simbolo è un’immagine che nasconde qualcosa…”.

“Qualcosa di preciso?”.

“No, dipende da chi legge…”.

“Quindi può voler dire qualunque cosa?”

“No, però… “.

“Possiamo dire che, se la realtà è un mistero, il simbolo suggerisce qualcosa di questo mistero senza spiegarlo?”.

“Sì”.

“E allora che cosa suggerisce l’immagine della Natura come tempio?”.

“Qualcosa di molto antico”; “Di sacro”; “Un tempio è molto grande”; “Una cosa misteriosa, piena di ombra…”.

“Ecco, qui c’è un vero e proprio alone di significati possibili… E perché in questo tempio ci sono dei ‘viventi pilastri’ che ‘a volte mandano fuori confuse parole’?”.

“Come se fossero alberi…Grandi alberi, immensi”.

“Non lo sappiamo con sicurezza, il simbolo è sempre aperto, a differenza dell’allegoria, che ha un unico significato, nascosto e ‘a chiave’; certo, questa è un’interpretazione plausibile. Considerate poi che l’originale francese non dice ‘mandano fuori’, come viene tradotto qui, ma ‘laissent parfoit sortir’. Pensiamo un momento alla differenza tra mandare fuori e lasciar uscire…”.

“Uno manda fuori apposta, invece ‘lasciar uscire’ è…meno intenzionale. Come se queste parole sfuggissero”.

“E perché sono confuse?”.

“Perché la Natura non parla, cioè parla ma in modo diverso dagli uomini… Non dice cose chiare”.

“Va bene, ci torniamo.  Poi la poesia continua: ‘Le attraversa l’uomo tra foreste di simboli dagli occhi familiari’; ecco, qui la differenza tra l’originale francese e la traduzione italiana è clamorosa. Baudelaire dice, letteralmente: ‘L’uomo ci passa attraverso foreste di simboli CHE LO OSSERVANO con degli sguardi familiari’; che differenza c’è?”

“C’è un verbo in più, ‘lo osservano’. In che senso lo osservano?”.

“Be’, per come siamo abituati a pensare, dovrebbe essere l’uomo a osservare la realtà naturale - ammesso che le foreste di simboli abbiano a che fare con la Natura, ditemi voi cosa ne pensate -, non il contrario. E se quelle foreste di simboli rappresentano un mistero di fronte a cui l’uomo si ritrova, non dovrebbe essere lui ad osservare, invece di essere osservato?”. 

“Sì, è vero. E la foresta secondo me è sempre la Natura. Però prima la poesia ha detto che la Natura è un tempio; sembra che la foresta stia fuori dal tempio, sia un’altra cosa…”.

“Lasciamo in sospeso per un momento la questione se anche la foresta rappresenti o no la Natura: secondo voi perché qui non è l’uomo che la indaga, ma è la foresta che osserva l’uomo, come se lo guardasse mentre passa? La foresta quindi è viva, consapevole?”.

“È come se l’uomo fosse un estraneo, che passa di lì senza poter entrare a far parte della Natura, un escluso. Viene osservato dalla foresta come se fosse uno straniero che passa in una città sconosciuta”; “A me fa venire in mente un film fantasy, dove anche gli oggetti e le piante hanno gli occhi, tutto è vivo…”.

“Una cosa: noi stiamo facendo l’errore di ridurre la foresta al singolare, invece Baudelaire dice ‘des forêts’, al plurale. Che differenza c’è?”.

“Danno l’idea di qualcosa di infinito; tante foreste, in cui ci si perde, tanti mondi…”.

“Già, tante foreste diverse, ognuna fatta di simboli; effettivamente sembra una moltiplicazione all’infinito… Tra l’altro, non so se l’avete notato, dal punto di vista letterale non sono le foreste, ma i simboli da cui le foreste sono costituite, che osservano l’uomo. Strano, no? Noi ci aspettiamo che i simboli siano fatti per essere interpretati, spiegati, indagati; non dovrebbero essere loro ad osservare. Ma questo l’abbiamo già detto”.

“È strano, sembra molto… astratto. E poi la foresta dovrebbe essere fatta di rami, di foglie, non di simboli”.

“Sì, l’immagine della ‘foresta di simboli’ – facciamo finta che sia una sola - è molto particolare. E chissà perché una foresta… Se fosse anche questo un simbolo, cosa suggerirebbe?”.

“Che è molto buia; poi scrivere che è fatta di simboli, come diceva Giovanni, significa mettere insieme una cosa molto concreta con una astratta”; “Anche che è intricata…e poi sembra la ‘selva oscura’ di Dante”.

“Già, probabilmente anche Baudelaire ci ha pensato… L’intrico forse rimanda a quello che Baudelaire dice dopo, cioè che tutte le cose, anche se appartenenti a campi sensoriali diversi (vista, udito, olfatto…), in qualche modo ‘si rispondono’; gli intrichi possono simboleggiare anche i legami misteriosi tra le cose.  E chissà se i simboli, come gli alberi di certe foreste, sono tutti uguali tra loro, di uno stesso tipo, perché la foresta fa pensare anche a qualcosa di molto omogeneo; oppure... Intanto un’altra immagine strana è quella dei simboli che osservano l’uomo ‘con sguardi familiari’. Familiari per chi? Ma come, non avevamo detto che l’uomo ci passava come un estraneo? Come mai allora questi sguardi sono ‘familiari’?”.

“Forse vuol dire che l’uomo, in un tempo molto antico, ha fatto parte della Natura, anche se adesso ne è escluso”; “Forse ha a che fare con qualcosa che ha conosciuto e poi ha dimenticato, dopo tanto tempo…”; “Che sapeva cose che col passare del tempo sono diventate misteriose”; “Che quelle cose sono dentro di lui, anche se non le conosce [e a me viene in mente il ‘J’est un autre’ di Rimbaud, di cui non abbiamo ancora parlato; e a questo punto però devo almeno dirgli qualcosa di Freud e della sua idea più geniale: quello che sappiamo di noi stessi è solo una piccola parte di ciò che siamo davvero...].”

Mi dispiace dover interrompere qui: si potrebbe continuare all’infinito, ma l’esemplificazione mi sembra sufficiente. Purtroppo ho tralasciato per ragioni di spazio e di sintesi molte altre osservazioni interessantissime fatte dagli studenti; il resto della lettura, comunque, ha seguito lo stesso andamento: ognuno può immaginarlo da sé (in fondo all’articolo riporto la poesia per intero, nella traduzione di Luigi De Nardis, presente nell’antologia utilizzata, e nell’originale francese).

Ecco, io ho la bislacca idea che l’interpretazione di una poesia sia una sfida che richiede la messa in movimento di tante capacità diverse allo stesso tempo (come accade per qualunque confronto con dei contenuti culturali significativi: un teorema matematico, la descrizione di una cellula…); e che, stimolando l’intelligenza in tutti i suoi aspetti, da quello linguistico a quello razionale, a quello immaginativo ed emotivo, prepari alla costruzione del proprio futuro molto più di tanti addestramenti alle ‘competenze’.

 

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Corrispondenze

 

E' un tempio la Natura ove viventi

pilastri a volte confuse parole

mandano fuori; la attraversa l'uomo

tra foreste di simboli dagli occhi

familiari. I profumi e i colori

e i suoni si rispondono come echi

lunghi che di lontano si confondono

in unità profonda e tenebrosa,

vasta come la notte ed il chiarore.

Esistono profumi freschi come

carni di bimbo, dolci come gli òboi,

e verdi come praterie; e degli altri

corrotti, ricchi e trionfanti, che hanno

l'espansione propria alle infinite

cose, come l'incenso, l'ambra, il muschio,

il benzoino, e cantano dei sensi

e dell'anima i lunghi rapimenti.

 

Da I fiori del male, Les Fleurs Du Mal, 1857 

Traduzione di Luigi De Nardis, Milano, Feltrinelli, 1964

 

Correspondences

 

La Nature est un temple où de vivants piliers

Laissent parfois sortir de confuses paroles;

L'homme y passe à travers des forêts de symboles

Qui l'observent avec des regards familiars. 

Comme de long échos qui de loin se confondent

Dans une ténébreuse et profonde unité,

Vaste comme la nuit et comme la clarté,

Les pafums, les couleurs et les sons se répondent. 

Il est des parfums frais comme des chairs d'enfants,

Doux comme del hautbois, verts comme les prairies,

- Et d'autres, corrompus, riches et triomphants, 

Ayant l'expansion des choses infinies,

Comme l'ambre, le musc, le benjoin et l'encens,

Qui chantent les transports de l'esprit et des sens.