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La parola vuoto ha spesso una accezione negativa, ma in realtà non esiste alcun pieno se prima non c'è un vuoto; ricordiamo l'oscillazione nella radice della parola latina vacare, che significa esser vuoto e insieme avere il tempo di compiere un'azione determinata.

Spesso si collega il vuoto al silenzio, ma per i filosofi greci il silenzio costituisce il terreno su cui può germogliare una parola sapiente, si è parlato talvolta di una sorta di "passività feconda", quella sorta di passività che conoscono solo le madri e coloro che sono abituati a lavorare la terra. “La mente non ha bisogno, come un vaso, di essere riempita, ma, come la legna da ardere, ha bisogno solo di una scintilla che la accenda” affermava Plutarco. E il vuoto e il silenzio a volte possono essere quella scintilla, come ben sanno quanti fanno pratica di meditazione.

Partendo dalla parole-chiave vuoto si può partire per la costruzione di un percorso didattico interdisciplinare.

Siamo figli del Partenone, è così!

Il nostro metro di giudizio sull’arte di ogni epoca è rimasto fermo là, ancorato a quegli equilibri, a quelle proporzioni, ad un’armonia impeccabile di pieni e di vuoti.

Ed è con questa lente che abbiamo giudicato ogni forma d’arte successiva.

È anticlassico tutto ciò che è sproporzionato, deforme. Soprattutto ciò che è eccessivo.

E tra i tanti misfatti contro la tradizione classica quello più grave è l’horror vacui, il terrore del vuoto. Un impulso che porta lo sventurato artista a riempire in modo compulsivo ogni parte della sua opera per non lasciare spazi liberi che trova la sua origine in sarcofagi barbari e arriva alla  volontà di stupire dell’ barocca.

 

E poi succede che nell’arte dei secoli seguenti non ci sia più traccia di un horror vacui paragonabile a quello barocco. Succede che bisogna aspettare la seconda metà del Novecento per trovare un’estetica che le somigli.

Ecco così Jackson Pollock (1912-1956) con le sue tele ottenute schizzando il colore fino a saturarne la superficie. (L'immagine di una sua  tela è stata scelta per questo percorso)

«E la sua invenzione specifica è stata quella di introdurre discretamente, infantilmente, un po’ di Vuoto nella musica, e perciò nella nostra vita. Ora, quel Vuoto ha per noi tutti una funzione salutare, come una brezza per un asfittico. Perché una delle malattie più gravi di cui soffriamo è quella del Pieno: la malattia di chi vive in un continuo mentale occupato da un vorticare di parole smozzicate, di immagini stolidamente ricorrenti, di inutili e infondate certezze, di timori formulati in sentenze prima che emozioni.»

 Scrive Roberto Calasso in La follia che viene dalle ninfe testo in cui analizza il fenomeno di «divina follia» che assume varie forme e da cui discendono il pensiero stesso, la poesia, la divinazione. Ma, se si indaga la storia segreta di questa parola follia – svilita e diffamata dai Moderni –, si scopre che alla sua origine vi è una figura: la Ninfa, provocatrice della possessione primigenia, la possessione erotica, che colpisce non solo gli uomini ma gli dèi. 

Anche alle origini della poesia pascoliana è ricorrente il senso angoscioso del buio, del mistero, il senso della vertigine, del vuoto: la sensazione che noi riconosciamo tra le più caratteristiche dell'uomo moderno da quando la nuova concezione copernicana tolse ai viventi le riposanti certezze cosmologiche degli antichi e scardinò la Terra dal centro. In effetti sulle sensazioni pascoliane, e sulle menome cose di cui è nutrita la sua lirica, si apre o meglio si dilata con orrore lo spazio, e «non c'è più la tranquilla immobilità» ma il soffio d'un vento cosmico. Da questo sgomento derivano le voci più nuove del poeta. 

 La vertigine:

 

Uomini, se in voi guardo, il mio spavento

cresce nel cuore. Io senza voce e moto

voi vedo immersi nell'eterno vento;

 

voi vedo, fermi i brevi piedi al loto,

ai sassi, all'erbe dell'aerea terra,

abbandonarvi e pender giù nel vuoto.

 

Oh! voi non siete il bosco, che s'afferra

con le radici, e non si getta in aria

se d'altrettanto non va su, sotterra!

 

Oh! voi non siete il mare, cui contraria

regge una forza, un soffio che s'effonde,

laggiù, dal cielo, e che giammai non varia.

 

Eternamente il mar selvaggio l'onde

protende al cupo; e un alito incessante

piano al suo rauco rantolar risponde.

 

Ma voi... Chi ferma a voi quassù le piante?

Vero è che andate, gli occhi e il cuore stretti

a questa informe oscurità volante;

 

che fisso il mento a gli anelanti petti,

andate, ingombri dell'oblio che nega,

penduli, o voi che vi credete eretti!

 

Ma quando il capo e l'occhio vi si piega

giù per l'abisso in cui lontan lontano

in fondo in fondo è il luccichìo di Vega...?

 

Allora io, sempre, io l'una e l'altra mano

getto a una rupe, a un albero, a uno stelo,

a un filo d'erba, per l'orror del vano!

 

a un nulla, qui, per non cadere in cielo!

 

La vertigine è quindi la sensazione che il poeta prova affacciandosi alla vita, uno sgomento verso il confronto della propria finitezza di uomo e il vuoto cosmico che al contempo lo affascina, come lo affascina il mistero. 

 

Nel pensiero classico l’idea di vuoto veniva assimilata al nulla. “La natura aborre il vuoto” diceva Aristotele.

La tradizione giudaico-cristiana ha poi ereditato gran parte delle dottrine platoniche e aristoteliche dell'essere del non essere. Agostino, ad esempio, afferma che termini come «vuoto, nulla, tenebre» denotano esclusivamente una «mancanza» e sono relativi a un particolare «stato mentale». Infatti Agostino nel discorso 53 scrive: “Tu senti la voce d'un mendicante, ma tu stesso sei mendicante di Dio. Si chiede a te, ma chiedi anche tu. Come ti comporterai con chi chiede a te, così anche Dio si comporterà con chi chiede a lui. Tu sei pieno e vuoto nello stesso tempo; riempi con la tua pienezza chi è vuoto, affinché il tuo vuoto sia riempito della pienezza…”

Nella filosofia tedesca successiva il «vuoto» viene a coincidere col «nulla» in senso metaforico all'interno del nichilismo che predica la caduta di tutti i valori privi di fondamento ultimo o metafisico - si pensi a Schopenhauer e Nietzsche: il nulla è appunto il vuoto lasciato dal senso, dal fine, dai valori. 

Jung dà  invece un’interpretazione positiva del vuoto. 

«Va col vuoto tra le mani, poiché questo è tutto. Questo è il mio dono. Se riesci a portare il vuoto tra le tue mani, allora ogni cosa diventa possibile. Non portarti dietro i tuoi pensieri, la tua conoscenza, non portarti dietro niente di ciò che riempie il secchio, e che non è altro che acqua, perché altrimenti guarderai sempre e solo il riflesso, e nient’altro. Nella ricchezza, nei beni materiali, nella casa, nell’automobile, nel prestigio, tu non vedrai che il riflesso della luna piena nell’acqua del secchio, mentre la luna vera è lì, in alto, che ti aspetta da sempre. Lascia cadere il secchio, cosi che l’acqua sfugga via, e con essa la luna. Solo questo ti permetterà di alzare lo sguardo e vedere la vera luna nel cielo; ma prima devi avere conosciuto il sapore del vuoto, devi lasciar cadere il secchio della tua mente, dei tuoi pensieri: non più acqua, né luna. Il vuoto nelle mani» (Jung – Libro Rosso

Rivolgendosi al suo interno Jung scopre come le sue scelte fino a quel momento fossero state dettate dallo Spirito del Tempo presente in lui, le cui caratteristiche sono interesse per la scienza, la socialità, l’umanità; accanto ad esso intravede tuttavia il suo opposto: lo Spirito del Profondo volto al contrario al regno dello spirituale, alla solitudine, a meditazioni religiose. Se prevale esclusivamente l’uno o l’altro   il primo rende superficiali e ciechi, il secondo fa blaterare in linguaggi incomprensibili e isola dal mondo umano. L’unione dei due genera il Senso Superiore laddove il Senso Superiore è dato dall’incontro tra Senso e Non-Senso.

 

Nella maggioranza delle tradizioni culturali d’Oriente, l’idea di vuoto è sinonimo di infinita ricchezza di possibilità, di massima apertura e libertà. Secondo un maestro hindu «Lo stato di vuoto mentale non è la demenza dell'idiota, ma intelligenza sommamente attenta, non distratta da pensieri estranei». Questa idea di vuoto è stata formulata soprattutto dal buddhismo in India, si è poi sviluppata col taoismo in Cina, ed ulteriormente in Giappone, specialmente grazie all’influsso che il buddhismo della Scuola Zen ha esercitato nelle arti. Il vuoto, quindi, non come semplice negazione del pieno, ma come «entità di per sé esistente». Del vuoto, infatti, è possibile avere un’esperienza positiva attraverso le forme d’arte orientali che, invece di «rappresentare» un oggetto, «presentano» il vuoto tra le cose, ciò che le individua e distingue.

Oggi dunque l’idea che il vuoto faccia orrore è cambiata radicalmente: anche la Natura non aborre affatto il vuoto anzi, l’Universo è quasi ovunque vuoto ed è semmai la materia che ora costituisce l’eccezione. In verità è la materia stessa praticamente vuota essendo la sua massa quasi interamente concentrata nei piccolissimi nuclei degli atomi che la costituiscono. 

La meccanica quantistica ha offerto una visione del tutto nuova di vuoto: essa lo immagina pervaso da continue fluttuazioni energetiche dalle quali si genera materia. Uno dei risultati più straordinari della fisica del microcosmo è l’avere scoperto quindi che lo spazio vuoto non è affatto vuoto: appare tale solo perché la creazione e la distruzione incessante di particelle ed altre strane entità si verifica in esso su intervalli temporali brevissimi e tali comunque da non lasciare allo sperimentatore il tempo materiale per la loro rilevazione. Il vuoto sembra tranquillo e calmo su scala macroscopica come appare piatto e uniforme il mare visto da un aereo che vola ad alta quota mentre se si stesse su una barchetta esso si mostrerebbe ben diverso, con onde e flutti anche di notevoli proporzioni. Allo stesso modo, se lo potessimo guardare da vicino, il vuoto apparirebbe un mare in tempesta ribollente di ogni sorta di manifestazioni stravaganti, fenomeni che avverrebbero da sempre e in ogni dove. Oggi si ritiene non solo che la natura non abbia affatto paura del vuoto, ma che ogni cosa che esiste e che esisterà in futuro è stata ed è tuttora presente in forma virtuale nel nulla dello spazio.

Questa incredibile proprietà del vuoto scaturisce dalla combinazione della meccanica quantistica con la relatività di Einstein. Una conseguenza diretta della meccanica quantistica è il principio di indeterminazione di Heisenberg il quale afferma che il mondo microscopico possiede un’incertezza di fondo: l’impossibilità di determinare con precisione assoluta i parametri fisici delle particelle di piccole dimensioni. Nel vuoto questa incertezza si manifesta sotto forma di piccole fluttuazioni energetiche che vanno e vengono senza sosta e che in parte si convertono in entità materiali. La teoria della relatività, attraverso la famosa equazione E=mc² (energia uguale massa per velocità della luce al quadrato), suggerisce infatti che l’energia possa trasformarsi in materia e viceversa. 

 

Tra le accezioni della parola vuoto vi è quella in cui il vuoto è assimilabile alla nostalgia, un dolore per l’assenza che è sostanzialmente mancanza e ricordo.

 

In "Vuoto d'amore" di Alda Merini (1991) il vuoto altro non è che una protesta per lo stato di solitudine e una richiesta di attenzione e di amore:

Spazio spazio, io voglio, tanto spazio

per dolcissima muovermi ferita:

voglio spazio per cantare crescere

errare e saltare il fosso

della divina sapienza.

Spazio datemi spazio

ch’io lanci un urlo inumano,

quell’urlo di silenzio negli anni

che ho toccato con mano

Molto è stato scritto sul tema del vuoto in Samuel Beckett. Il vuoto in senso fisico e matematico, il vuoto in senso esistenziale, il vuoto nel senso di mancanza di ispirazione o immaginazione, di strumenti comunicativi ed espressivi, il vuoto dei sentimenti, il vuoto dell’attesa e quello della morte. Ma il vuoto in Beckett è anche un vuoto caratterizzato da una specifica fisicità e spazialità, un vuoto che sembra potersi riempire, per poi svuotarsi e riempirsi di nuovo in un continuo dinamismo senza speranza o, ancora meglio, con la speranza (tutta leopardiana) di avere speranza. Una sorta di stabimobilism, come nella definizione del suo maestro Joyce in Finnegans Wake: un moto centripeto e insieme centrifugo che, nella sua frenesia rutilante, si cristallizza nella più inalterata staticità. I movimenti nel (e del) vuoto beckettiano avvengono per lo più in attimi velocissimi e fugaci ma anche, simultaneamente, immobili e durevoli, secondo quella “coincidenza degli opposti” che sia Beckett sia Joyce hanno recepito da Giordano Bruno:  “Ci danno la vita a cavallo di una tomba. Il giorno splende in un istante; ed è subito notte […] Partoriscono a cavallo di una tomba, il giorno splende un istante, ed è subito notte”, Aspettando Godot).

Secondo Samuel Beckett Tutte le arti si assomigliano ‐ un tentativo per riempire gli spazi vuoti. Perciò oltre alle arti figurative, alla poesia, anche la musica sarebbe un modo per riempire li spazi vuoti dell’esistenza. 

E così il grande maestro Franco Battiato (2007) nel brano Il Vuoto canta: "Inseguo il nostro tempo vuoto di senso, senso di vuoto. E persone quante tante persone un mare di gente nel vuoto"