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Nessun docente, compresa me, avrebbe mai immaginato che le parole in tema di istruzione pronunciate dal famoso scrittore di fantascienza Isaac Asimov sarebbero diventate così attuali in questi tempi bui, infettati dal  Coronavirus. Eppure lo scrittore le pronunciava  il 31 dicembre 1983 nel tentativo di raccontare, sulle pagine del Toronto Star, come sarebbe stato il  mondo attuale. Oggi ci sembra assolutamente ovvio che un buon insegnante non dia informazioni ai propri alunni e che si adoperi  per instillare in loro  curiosità e sete di sapere, ma nel 1983 tutto questo era fortemente prodromico. Ed ancora più antesignana era la sicurezza con cui Asimov ci preannunciava che le nozioni sarebbero transitate  utilizzando i computer direttamente da casa. Ogni giovane avrebbe prima desiderato  imparare e poi avrebbe appreso rispettando i suoi tempi e le sue modalità di apprendimento direttamente dalla scrivania della sua camera, collegandosi al suo pc.

Questa visione avveniristica è piombata addosso ai docenti in modo repentino e angosciante, date le coloriture storiche e geografiche che accompagnano il coronavirus, ed ha portato alla ribalta il complesso tema delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Siamo tutti consapevoli di essere attori dell’era dell’accesso, della molteplicità di intelligenze e di identità, della virtualità che ingloba il nostro mondo reale, ma i locali scolastici dove prestiamo servizio ogni mattina sono rimasti abbastanza immuni ed autoreferenziali rispetto alla digitalizzazione imperante. Anche il docente ha sviluppato sufficienti anticorpi che lo hanno portato ad evitare il più possibile di fare entrare, in modo vigoroso e nel vivo delle sue lezioni, le tanto temute tecnologie. Quasi la totalità dei docenti usa registri elettronici, LIM, libri multimediali ma pochi si interrogano sulla profondità che sottostà a tale uso superficiale.  Adesso non è più possibile. L’emergenza in cui siamo stati introiettati ci impone di operare sul campo della didattica a distanza per rispondere all’isolamento fisico a cui noi ed i nostri alunni siamo sottoposti. Il coronavirus personifica quella riforma dell’istruzione che non ha più il volto della Gelmini, della Fedeli, dell’Azzolina  o di altri ancora, ma che reca le sembianze del tanto temuto pc e di tutta quella Rete delle reti, che alberga nei suoi più reconditi circuiti. Nello specifico il coronavirus ci ha proiettati  in seno alla didattica a distanza, che non è un travaso di schede, materiale, file (non vogliamo certo tornare al riempimento delle teste vuote esecrato da Michel de Montaigne) peraltro inviato con flusso continuo allo studente, che non riesce ad orientarsi nel marasma di compiti che gli perviene a casa. Educare col digitale non si traduce nell’uso forzato di Google Meet o Zoom. E’ indispensabile che prima vengano messi in discussione le nostre lezioni, informate da nuovi tempi e nuovi spazi. Il costruzionismo digitale ce lo ha insegnato da tempo facendoci riflettere affinchè non si cada nell’equivoco di ripresentare una lezione frontale semplicemente elettrificandola. La didattica a distanza ha come caposaldo il feedback che è essenziale affinchè si produca il vero apprendimento.  Nell’immediato è stato normale affidarsi alle sicurezze offerte dai registri elettronici pur sapendo che essi non sono strumenti  per l’e-learning , dato che utilizzandoli sappiamo che instauriamo un tipo di comunicazione unilaterale dove la restituzione del compito, laddove questo avvenga, non aggiunge molto al flusso comunicativo a senso unico che fa capo al docente. Anche il ricorso alla videoconferenze ci sta aiutando molto relativamente se non per il fatto che si generi un intasamento della Rete, peggiorato dalla poca connettività e da problemi organizzativi posti dagli studenti. Ognuno di noi ha, allora, pensato bene di optare per gli strumenti che meglio conosce, utilizzando le più svariate piattaforme messe a disposizione mentre sarebbe opportuno scegliere la stessa piattaforma ed usarla a livello di intera comunità scolastica nell’ottica di una condivisione partecipata orientata all’efficacia del mezzo utilizzato. Infine un altro grande interrogativo pervade l’area, già di per sé spinosa, della valutazione: bisogna valutare in una situazione di emergenza? Si apre così il dibattito afferente il tema della legalità delle valutazioni online a cui si potrebbe tranquillamente opporre il buon senso di valutare formativamente il feedback, che gli alunni ci inviano, inerente la nostra lezione. Cosa può fare ancora il docente oltre a passare gran parte delle sue giornate da recluso a sbrogliare la matassa delle 10 applicazioni online per fare didattica in Cooperative Learning a distanza? Ce lo suggerisce Umberto Galimberti con la sua solita aria serafica ma altamente illuminata. Bisogna trasmettere ai nostri alunni la nostra presenza attivando classi virtuali in cui il messaggio fondante sia quello di amministrare l’angoscia a cui siamo sottoposti. L’angoscia, per sua natura, non ha un referente oggettivo, è generalizzata e pervasiva, inevitabilmente incontrollabile ed in quanto tale in grado di fagocitare il nostro equilibrio. L’angoscia deve essere trasformata in paura, in una paura oggettiva e condivisibile verso un virus che sta mettendo a dura prova medici ed infermieri ma verso cui ci sono barriere che possono essere interposte. Socializziamole coi nostri ragazzi, attiviamo il loro senso critico, le loro capacità analitiche e cerchiamo di ricreare quel clima di responsabilità ed autoregolazione che è il caposaldo del nostro sistema scolastico. La scuola non può fermarsi .Ce lo ricorda il Manifesto di Avanguardie Educative-Indire  con i 6 assi della Crescita, della Comunità, della Responsabilità, del Sistema, della Rete e dell’Innovazione. Cominciamo ad orientarci all’interno di spazi collaborativi dove i pilastri siano costituiti da coding, arte, musica, creatività. Solo in tal modo riusciremo  a promuovere quella cultura dell’efficacia dei processi, che curerà freinetnianamente studenti e famiglie anche contro il famigerato coronavirus.