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Da diversi anni a questa parte, al ritorno da qualunque periodo di pausa (estiva, natalizia, pasquale), anziché chiedere agli studenti di scrivere un 'diario delle vacanze' (che si risolve nell'inevitabile "lunedì siamo andati a pranzo da zia, martedì a cena da nonna..."), chiedo di descrivere cinque esperienze culturali significative vissute durante quei giorni. Le 'esperienze culturali significative', spiego ogni volta, possono essere di tanti tipi: la lettura di un libro, di un racconto, di una poesia, di un fumetto, di un articolo particolarmente interessante, la visione di un film o di un documentario, l'ascolto di una canzone, un viaggio in un posto nuovo o la scoperta di un luogo che non si conosceva nella propria città o nel proprio quartiere, un discorso da cui si è imparato qualcosa (anche nel senso del confronto intergenerazionale: il nonno che racconta gli anni '60, il bisnonno che ricorda la guerra...), un incontro, dei pensieri e delle riflessioni che ci sono venuti in mente...

Non so se la cosa stupisce, ma questo semplice lavoro mette in grandissima difficoltà gli studenti, specie quelli che mi conoscono già e che guardano con terrore al momento 'cinque esperienze culturali significative'. Ogni volta che assegno questo compito, arriva dalla maggior parte di loro la stessa obiezione: "Professo', ma io non ho fatto NIENTE. Che devo scrivere?". E io ogni volta a spiegare che le esperienze culturali possono essere tante e di tanti tipi diversi, che una o due le hanno già fatte, visto che ho dato loro uno o due libri da leggere (a seconda della durata delle vacanze); ma nessuna spiegazione riesce a far andare via il senso di smarrimento che vedo negli occhi degli studenti e l'afasia da cui vengono assaliti. E allora vado oltre, mi butto sulla matematica: "Scusa, voi avete fatto ventuno giorni di vacanza, che sono più o meno cinquecento ore, giusto? Ora, diciamo che duecento ore sono quelle del sonno e del riposo, rimangono trecento ore. Le avrai riempite con qualcosa, o no?". "No, professo', davvero non ho fatto NIENTE". "Sai che vuol dire per me niente? Che uno passa tutto il tempo sdraiato sul letto a fissare il soffitto, e anche lì non è proprio niente, perché anche così vengono in mente dei pensieri". "Professo', e che devo dire? Ho giocato alla Play, sono uscito con gli amici...". "Be', sarete andati da qualche parte, avrete parlato di qualcosa...". "Ma no, niente...". Il braccio di ferro continua a lungo, ma su questo punto non mollo; ormai continuo ad assegnare questa descrizione proprio per far spiccare agli occhi dei miei studenti la nudità di quel NIENTE, per renderli consapevoli della sua assurdità, di fronte alla ricchezza di ciò che la vita e la conoscenza avrebbero da offrire loro, per farli riflettere sulla loro difficoltà a trovare le parole per dire ciò che vivono. Ecco, quando ad esempio si innesca il dibattito sterile 'compiti a casa sì, compiti a casa no', bisognerebbe ricordare il vuoto in cui vivono molti dei nostri ragazzi (quelli in carne ed ossa, non quelli immaginati da chi teorizza su di loro), un vuoto che non vogliono e che non hanno scelto ma da cui spesso non riescono ad uscire, tanto meno attraverso l'iperconnessione e la ripetitività orizzontale della comunicazione social, 'tappo' illusorio contro l'angoscia e il senso di solitudine e prigione che non lascia spazio a nessuna reale elaborazione dell'esperienza; e aiutarli a riempirlo, quel vuoto, con la proposta di contenuti culturali vivi e nutrienti - che siano sentiti come tali prima di tutto da chi li propone, ovviamente - in cui possano cercare risposte e stimoli preziosi per la propria vita.