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Quella del dirigente scolastico è una professione difficile anzi, estremamente difficile, ma segnata dalla stessa maledizione che colpisce gli insegnanti: l’opinione pubblica infatti non crede che quello dell’insegnante sia un lavoro particolarmente gravoso, esattamente come il docente non ritiene il compito del dirigente particolarmente impegnativo.

Non basteranno neanche le spiegazioni razionali (“il docente ha la responsabilità di alcune classi ma il dirigente di un intero istituto”) a ristabilire la ragione, proprio come accade per l’opinione pubblica. Ho più volte paragonato la professione del preside all’impresa di un esploratore che si accinge ad attraversare nudo l’Amazzonia con la sola dotazione di un coltellino svizzero.

La partenza è subito in salita perché, dal momento della nomina, cambia l’utenza e, di conseguenza, anche la tipologia di relazione con la stessa. Dal rapporto “asimmetrico e intergenerazionale con gli alunni”, dove non c’è contraddittorio vero e la ragione sta sempre “dalla tua”, si passa d’incanto al confronto “fra pari” con gli ex-colleghi che invece continuano a mantenere il rapporto coi loro studenti.

La relazione dirigente-docente pertanto si caratterizza subito per diffidenza, perplessità, sospetto ma soprattutto per quella opposizione atavica che vede contrapposti lavoratore e datore di lavoro. Se le parti non trovano l’intesa i malumori si riflettono immediatamente sull’istituzione scolastica che, divenuta ingestibile, risucchia nel gorgo dei conflitti anche l’utenza più problematica. Il dirigente, sovente arroccato in una fragile solitudine, si trova così di fronte alle prime difficoltà con la fisiologica tentazione di combattere quello che è ritenuto un inevitabile scontro rifugiandosi dietro all’arma che invece potrà rivelarsi fatale: il rapporto gerarchico coi propri “subordinati”.

Ascolto, capacità gestionale, mediazione, pazienza, consapevolezza dei propri limiti e azione di delega sono solo alcuni dei talenti che ciascun preside è tenuto a possedere e utilizzare per non soccombere di fronte alle circostanze. Talvolta possono non bastare nemmeno perché, oltre alle questioni professionali, sono – come tutti – chiamati ad affrontare vicende private. Capita di morire sul posto di lavoro dopo estenuanti impegni e riunioni (tre dirigenti nel solo mese di maggio), ma può andare anche peggio: così sembra essere stato per il dirigente del liceo Marco Polo di Venezia (sulle cui spalle gravavano molte altre reggenze), di recente morto suicida due giorni prima dello sciopero indetto a scuola in segno di “protesta contro la sua gestione autoritaria”. Conflitti simili sono frequenti come testimonia la storia della dirigente che mi ha scritto, schiacciata contemporaneamente dai conflitti scolastici e una grave malattia. Non si vogliono stabilire colpe e ragioni, ma riflettere sulla natura di inevitabili conflitti e sui momenti “sensibili” che possono cambiarci la vita a seconda delle situazioni che ci troviamo davanti e di come decidiamo di affrontarle. (I dati sono ovviamente contraffatti e sintetizzati per non consentire il riconoscimento della scuola e dei protagonisti).

 

Gentile dottore, 

sono dirigente scolastico di un Istituto di 13 scuole, dislocato sul territorio di 10 Comuni con 1800 ed oltre alunni e in pieno anno 150 docenti e 30 persone in ruolo ATA.

Ho trascorso due anni scolastici sereni e proficui, poi mi è stato diagnosticato un tumore in fase avanzata e insieme alla malattia sono cominciate le bordate di odio. Dopo qualche mese, la malattia è recidivata e sono cominciati i conflitti con un sindacato. Le maestre erano abituate a farsi le cattedre da sole senza criterio e senza controllo del dirigente né dei reggenti (7 anni di reggenza), le comunicazioni istituzionali erano spesso erronee e fuorvianti. Allora ho intrapreso alcune azioni essenziali:

– ho rispristinato la legalità dei macro-processi organizzativi, ho cercato di eliminare prassi senza regole, dando criteri sindacalmente decisi, nel rispetto della legge e del contratto vigente

– ho reso la scuola istituzione del territorio e nel territorio

– ho applicato la legge amministrativa e instaurato un sistema di comunicazione trasparente e legittimo.

Seguono lettere ingiuntive, telefonate oltraggiose e minacciose, fino a trasformarsi in attacco quotidiano per iscritto. Ogni mese facevo 4 giorni di chemioterapia e lavoravo e il dsga mi diceva: “Visto che non c’è mai, deve recuperare di sabato”. Mi sottopongo a cure intense e non manco ancora ai miei doveri, ma un gruppo di maestre e di genitori mi accusa al Provveditore di aver gestito male la scuola. Viene avviata un’indagine ispettiva dalla quale risultano solo a mio carico elogi e congratulazioni, buoni consigli e incoraggiamento a continuare salvaguardando la salute, messa a repentaglio da questa assurda fonte di stress.

Non finisce qui. Viene divulgata una lettera anonima contro il mio operato e stavolta è la Guardia di finanza a indagare col solito nulla di fatto. Benché riesca a condurre ancora il mio lavoro con fermezza e costanza (nonostante i plurimi ricoveri sono ancora malata e soggetta a terapia salvavita, ovviamente) l’onda di fango non si arresta. Come tutte le persone violentate sono piena di paura, anche se la mia non è una tenera età, faccio fronte con l’assoluto silenzio che è imposto a chi ha responsabilità di persone e di mezzi. In pubblico mantengo una stoica fermezza e non rispondo alle provocazioni. Per noi dirigenti è doveroso far fronte all’odio ogni giorno, ogni istante con la compostezza personale, l’applicazione della legge, la competenza. Non si tratta più di contrasti o di conflitti: è odio. Sono molto ben seguita all’ospedale, ma sento che il mio è un male dell’anima, per questa ragione non mi informo più sulla malattia e sulle cure poiché non reggo la cesura tra emotivo e cognitivo.

 

Riflessioni

 

Ci troviamo in una realtà scolastica complessa (molte sedi tra loro distanti, innumerevoli anni di reggenza “anarcoide”, scarsa propensione al dialogo) con una dirigente di nuova nomina e con tante buone intenzioni. La luna di miele si esaurisce in un paio d’anni quando le parti realizzano che non è possibile trovare un accordo per apportare i necessari cambiamenti.

Come un mantra la preside ripete: “Ho rispristinato la legalità… ho eliminato prassi senza regole… ho reso la scuola istituzione del territorio… ho applicato la legge amministrativa… ho instaurato un sistema di comunicazione trasparente e legittimo…”, ma il prezzo pagato è alto, forse troppo, e il risultato insoddisfacente. Scoppia infatti una guerra senza esclusione di colpi ma, il più basso viene inferto da fuori, anzi da dentro, dal suo stesso soma che reagisce e si ribella ai continui ed estenuanti conflitti. Il tumore aspettava il momento giusto per manifestarsi: quello con le difese immunitarie azzerate dall’alta cortisolemia determinata dallo stress cronico.

 

Lo scontro scolastico degenera e oltre al personale scolastico coinvolge sindacati, USR, Autorità Giudiziaria, Forze dell’Ordine, non portando nemmeno rispetto per le precarie condizioni di salute della dirigente che si sente sempre più isolata, accerchiata e odiata fino al punto di vergare parole che costringono a riflettere: “Per noi dirigenti è doveroso far fronte all’odio ogni giorno, ogni istante con la compostezza personale, l’applicazione della legge, la competenza”. Ma proprio in queste parole consiste l’inadeguatezza della formula proposta, poiché la triade “compostezza, applicazione della legge e competenza” costituiscono i soli requisiti indispensabili ma non sufficienti per esercitare un “ruolo che – come scrive la dirigente – ha responsabilità di uomini e mezzi”.

 

La relazione tra pari, seppure da posizione apicale, richiede anche capacità analitica della situazione di partenza, conoscenza delle persone, empatia e soprattutto comprensione dello stato dell’arte per evitare, se possibile, forzature nei punti di rottura. Seppure combinati in modo del tutto casuale ci troveremo sempre ad avere una situazione con un dirigente più o meno capace e un istituto più o meno ingestibile, tuttavia il preside mai potrà contare sulla comprensione del docente (ciò accadrà solo e unicamente se questi, a sua volta, diverrà dirigente) per quanto riportato all’inizio. Inoltre le circostanze, ma soprattutto i ruoli, ci ricordano che tocca sempre al capitano della nave manovrare la barra del timone e toccherà sempre a lui prendere sagge e risolute decisioni soprattutto quando il mare è in tempesta, l’equipaggio è indisciplinato e gli scogli sono incombenti. Se preferiamo invece l’analogia terrestre, ricordiamo che il dirigente è nudo di fronte all’Amazzonia da attraversare a piedi, col suo coltellino svizzero. L’unico consiglio che possiamo dargli è di usare tutte le “punte” della sua dotazione e soprattutto di farne buon uso.

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