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La questione del reclutamento, che era già complessa prima, adesso, in tempi di coronavirus, sembra quasi indistricabile: come si fa a prevedere concorsi in questo periodo, dicono alcuni, non senza diverse buone ragioni?

Le motivazioni che rendono difficile lo svolgimento dei concorsi sono molteplici: non solo quelle legate al distanziamento sociale, ma anche le difficoltà di studiare e concentrarsi in un periodo così difficile, dove tra l'altro agli insegnanti - che siano a tempo indeterminato o determinato - viene richiesto un impegno enorme, quello della 'didattica a distanza', che lascia poco spazio a tutto il resto. Addirittura, oggi è difficile anche procurarsi i libri per studiare...

Ora, senza avere soluzioni magiche da proporre, vorrei riflettere su un paio di punti in modo da sgombrare almeno il campo da qualche equivoco:

1) Non è pensabile che per il reclutamento dei futuri insegnanti non venga prevista nessuna forma di selezione; la impone la stessa delicatezza del ruolo: stare a contatto con bambini e adolescenti non è un lavoro per tutti, è una professione che richiede una cultura, un talento, una motivazione, qualità umane e una preparazione specifici. Se per il passato non si è sempre tenuto conto, colpevolmente, di questa necessità, non si può continuare a ripetere l'errore all'infinito. Oltretutto, l'idea che non vi sia nessuna selezione è un'utopia: poiché, salvo in alcune discipline, le persone che vogliono entrare a lavorare a scuola sono più numerose dei posti disponibili, una selezione ci sarà sempre; "nessuna selezione" in realtà significa che entra non necessariamente chi è più bravo o più preparato, ma chi si sa muovere meglio, chi è più veloce, chi è più fortunato;

2) Al tempo stesso, però, è assurdo pensare di scegliere gli insegnanti sulla base della conoscenza di quattro formulette di didattichese alla moda, di metodologie del tutto astratte e prive di contenuti, di quattro elementi di legislazione scolastica; tutte cose che nel concreto lavoro con i ragazzi non serviranno mai a nulla. Allo stesso modo, la possibilità di cominciare quello che per i più convinti è il lavoro della vita non può avere come premessa il superamento o meno di questionari a risposta multipla di 'cultura generale', come se la cultura non fosse una ricchezza personale e umana complessa e articolata, acquisita in un lungo percorso di studio e conoscenza, ma una rapida verniciatura di risposte da imparare a memoria. Impensabile, ad esempio, che un insegnante non sappia produrre una spiegazione scritta dei contenuti della propria disciplina, corretta nelle conoscenze e nella forma espressiva: perché allora prima di accedere a tale prova veramente significativa ci si dovrebbe sottomettere alla roulette di un 'quiz'?

Insomma, se i futuri insegnanti devono accettare di sottoporsi a una qualche forma di verifica delle loro capacità e conoscenze, l'istituzione pubblica a sua volta deve garantire che questa verifica abbia un senso, riguardi la sostanza della preparazione e del talento e sia fondata su rilevanti motivazioni culturali; perché ciò sia possibile, coloro che decidono le modalità di verifica e quelli che le attuano devono essere a loro volta non dei burocrati, ma degli autentici intellettuali e degli autentici educatori, che sanno quello che vogliono, cosa andare a cercare e perché. A queste condizioni, e solo a queste condizioni, le stessa modalità di reclutamento potrebbero diventare più flessibili e prevedere ad esempio un'integrazione tra procedura concorsuale e serio (leggi: che si può superare oppure no) percorso formativo, che tenga adeguatamente conto anche delle esperienze lavorative già vissute.