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Raccolte le dichiarazioni del nuovo Ministro dell’Istruzione Fioramonti, cui si rinnovano gli auguri per il recente insediamento, sono in molti a chiedersi in che misura la sua azione risulterà incisiva nei confronti di una scuola in affanno. 

Curioso come il richiamo al “modello finlandese”, indicato dal Ministro come paradigma di eccellenza cui ispirarsi, riaffermi per l’ennesima volta l’esigenza di un rinnovamento cui la scuola, a ogni nuovo governo, non può sottrarsi. E il cambio di muta, quando riesce, propone un formale acconciamento, ma un meticcio resta tale: gli anni passano, si trascina in attesa di una carezza, di un boccone o di un gesto pio: essere accettato per il meticcio che è.

Fuor di metafora, non è questa la sede per un confronto tra i due modelli, quello italiano e quello finlandese: troppo ampio il divario di tradizioni, di storia, vari il contesto sociale ed economico perché si possa affrontarne qui la disamina. Solo si vuol far notare quanto facile sia cercare nell’altro possibili soluzioni ai problemi endemici del Belpaese. È prassi da noi, anche questo va riconosciuto, lamentare il cattivo stato in cu versa lo Stivale e guardare, di volta in volta con una punta d’invidia, ai mocassini in pelle di canguro o agli zoccoli olandesi. Confrontarsi in vista di un arricchimento di prospettive resta un’opportunità straordinaria. Non si negano gli apporti di altre culture. Ma quanto preferibile sarebbe rendere più efficiente ciò che di buono offre ancora l’istruzione in Italia. 

La scuola che fu di Gentile, per mezzo secolo e più, resta ancora, per certi aspetti, tra le più ammirate. Forse, per eroica resistenza alla modernità, buona parte degli insegnanti nutre più di un sospetto verso la cultura da self-made cui si dà il nome di competenza. E se appiattimento culturale vi è presso il pubblico, certo le cause andranno individuate nel tessuto socio-economico sempre più degradato e nella rarefazione di valori cui aveva guardato Pasolini, mentre assisteva con orrore all’affermazione della società dei consumi. I giovani, tutti – non solo quelli italiani – sono il prodotto più evidente di quell’humus. Tocca domandarsi cosa può fare per loro la scuola. In questo senso, l’articolo vuol significare le difficoltà e i paradossi cui devono far fronte gli insegnanti nel farsi carico dell’istruzione degli allievi. 

Con l’inizio dell’anno scolastico si torna alla carta: quella cosa inchiostrata, spesso sprecata in ore di progettazioni, il più delle volte inseguite e disattese negli obiettivi. Non si nega in questa sede il valore e la necessità di una programmazione. Solo si guarda con rammarico al lavoro sprecato inutilmente. Quanto sarebbe preferibile provare a realizzare pochi obiettivi, fondamentali, piuttosto che perdersi nel mare magnum delle competenze, ridotte a sigle da inseguire? E i cosiddetti nativi digitali – cui si guarda con sympatheia – addestrati al conseguimento delle competenze, con illimitate possibilità di accesso alle informazioni, riescono a reggere il confronto con le generazioni precedenti in termini di produzione e di comprensione di un testo e, più in generale, in quelle attività che richiedono capacità di astrazione? Senza la presunzione di fornire una risposta, con la prudenza che si addice a chi vuol suggerire, si avanza il sospetto che la via imboccata si fermi a un punto morto.

Non si tratta di un mero problema di didattica. Il punto è che la competenza può realizzarsi solo in parte a scuola. Si consegue sempre a livello personale sotto la spinta dell’interesse, quando l'allievo mette a frutto le conoscenze apprese. È il desiderio di scrivere un libro, per esempio, a far sì che l'allievo, nel tempo, realizzi una specifica competenza di scrittura. La scuola deve fornire gli input, fare esercitare i ragazzi, guidarli con esercizi mirati e costanti. Liberarsi di ciò che non parla più: se la storia della letteratura non offre risultati incoraggianti farla diventare, al bisogno, lettura e scrittura di opere e di temi realmente significanti. Ma pretendere di “insegnare” la competenza, misurarla, resta un’ambizione. Un’attività intellettuale non è assimilabile a una qualsiasi pratica. Diversi i tempi e le modalità di acquisizione del “fare”. Se per imparare ad andare in moto non è necessario apprenderne la meccanica, scrivere senza basi di ortografia e di sintassi produrrà disastri ineccepibili. La scuola italiana dovrebbe tornare a riconoscere come prioritario il valore delle sue conoscenze.

Non si avanza l’ipotesi di tornare al passato e di abbandonare tout court le competenze, ma di capire cosa prendere delle stesse. Leggere, scrivere e far di conto – i pilastri/gli obiettivi della prima scuola post-unitaria – erano competenze, sì. Guardavano realmente a ciò che serviva. Al presente, si dice scuola e si fa a gara a indossare i lustrini, a proporre un’offerta formativa di gran chiamo con progetti accattivanti per l’utenza, perdendo di vista l’essenziale: sapere ciò che è necessario e saperlo esprimere correttamente. Non siamo lontani dal precetto catoniano: rem tene, verba sequentur.

Sorge qui un altro dubbio: in che misura le prove Invalsi, imposte su tutto il territorio nazionale, tengono conto dell’eterogeneità delle competenze? Quale utilità nel sottoporre identici quesiti nella scuola dell’autonomia? Non sarebbe preferibile, a questo punto, un ritorno ai programmi ministeriali che indichino a tutti docenti, con chiarezza, gli obiettivi da portare a casa prioritariamente?

Anche così, la scuola andrà vissuta con fiducia. Se si vuole aiutare gli insegnanti, si riaffermi la centralità del rapporto tra docente e discente. L’insegnante sia messo nelle condizioni di svolgere il suo ruolo di mediatore di cultura: lo si favorisca nel lavoro con classi meno affollate, senza relegarlo al ruolo di tecnico o di burocrate. 

Le eccellenze italiane non sono inferiori a quelle di tanti altri Paesi, finché si guarda a una solida preparazione teorica, al lavoro degli insegnanti e all’essenziale collaborazione delle famiglie. 

Davide Spampinato